Prima il “biologico”, poi il “naturale”, quindi il “vegano” e ora il “no glutine”. Business, falsi allarmi, khomeinismo alimentare. Due saggi spiegano come nasce l’ultima frontiera del politicamente corretto
“Si consiglia di conservare in ogni parrocchia una quantità adeguata di ostie per celiaci. Dette ostie devono essere conservate in un contenitore a parte, in modo da evitare qualsiasi forma di contaminazione con ostie normali o con altri prodotti confezionati con farine con glutine (frumento, orzo, segale, farro)”. La puntuale avvertenza è contenuta (insieme a molte altre) sul portale della Associazione italiana celiaci, una specie di Sant’Uffizio dei no-gluten, setta molto in ascesa negli ultimi anni, con crescita di fedeli e fatturati.
In origine era il pane. Il glutine è quel complesso proteico che si forma quando uniamo acqua e farina, è la sostanza presente nei cereali che dà elasticità a pasta e pizza. Il glutine e un’altra molecola, la gliadina, si accoppiano, diciamo così, e creano quella consistenza gommosa che conosce chi abbia mai visto impastare pane o pizza (da cui: “agglutinare”). La celiachia poi non è un’allergia ma una malattia autoimmune: gli sfortunati portatori hanno un fisico che si ribella a questa molecola, provocando lesioni all’intestino, dolori, pancia gonfia. Il fatto è che questi sfortunati sono circa l’1 per cento della popolazione occidentale, e molti sono celiachi inconsapevoli. L’83 per cento dei celiaci – stima la rivista Time che qualche settimana fa ha dedicato al tema un lungo articolo – non sa di avere questo problema e continuano a mangiare le loro pastasciutte e i loro cornetti. Al contrario, il 99 per cento della popolazione che non è celiaca sembra appassionarsi sempre di più a una vita gluten free: il 30 per cento degli americani compra o vorrebbe comprare (costano cinque volte più di quelli normali) alimenti gluten free. La metà di quelli che li comprano pensano però di non essere celiaci. Intanto, la caccia al glutine è una straordinaria occasione di business: in Italia il mercato dei prodotti senza glutine cresce del 27 per cento l’anno.
Quando tutto è cominciato. Fino circa alla metà degli anni duemila si era nella “fine della storia” del cereale, per dirla alla Francis Fukuyama. Si mangiavano cioè tranquillamente pizzette e baguette, ma la rivoluzione khomeinista dei no-glutine stava già strisciando silenziosamente. Poi uscì uno dei suoi libri coranici, il bestseller “Wheat Belly” del cardiologo William Davis. Nel testo sacro dei no-glutine non si parlava solo di “pancia da cereali”, sostenendo ciò che in molti si sospettava, cioè che i cereali gonfiano (o che i cornetti ingrassano, come da scomode inchieste di Report) ma che il glutine era il male assoluto, causando dall’artrite all’asma alla sclerosi multipla alla schizofrenia. David Perlmutter, l’altro ayatollah della lotta al glutine, ha scritto l’altro testo fondamentale del talmud no-glutine: “Grain Brain: The Surprising Truth About Wheat, Carbs, and Sugar—Your Brain’s Silent Killers”, andando ancora oltre, sostenendo che la sensibilità (non l’allergia, non la celiachia, ma la “sensibilità”) al glutine “rappresenta una delle più grandi e sottovalutate sfide all’umanità”, tipo i gay o forse anche peggio (chissà i gay celiaci).
La crociata contro il glutine ha fatto più proseliti, e più velocemente, di Scientology: oggi oltre cento milioni di americani vogliono evitare come la peste i cereali. Guidati da personaggi di riferimento come Gwyneth Paltrow, Jennifer Aniston, Victoria Beckam e Miley Cyrus che professano vite gluten-free. Oprah Winfrey nella sua dieta disintossicante dei ventun giorni evita ovviamente i cereali. Il dietologo dei Clinton, Mark Hyman, parla di “supergluten” come di male assoluto. C’è perfino una puntata di South Park in cui la cittadina surreale americana diventa la prima al mondo gluten-free.
Secondo il “New Yorker”, che ha scritto una lunga inchiesta sul tema, nel 2016 il mercato americano dei prodotti per celiaci (consapevoli o meno) arriverà a 15 miliardi di dollari, il doppio di cinque anni fa. E mentre si scrive, all’Expo milanese ecco un primario evento dedicato a “Celiachia e donna”, padiglione Italia. Intanto qualcuno prova ad arginare la temperie antifarinacea: Stephen Yafa, giornalista d’inchiesta americano, ha da poco pubblicato un libro-inchiesta, “The Gluten Lie”, dopo che alla moglie era stato diagnosticato (dal terapista ayurvedico) un “collo da glutine”, cioè un persistente mal di collo dovuto certamente all’infame molecola, e quindi in famiglia stavano per essere sospesi per sempre alimenti commestibili a partire dal pane, cibo simbolico sopra tutti (“levarsi il pane di bocca”, oltre alle simbologie religiose), e vietato da qualunque dietologo perché certo non fa dimagrire (ma vera criptonite per i khomeinisti antiglutine).
Alla facile obiezione che il pane e i derivati del grano rappresentano una delle basi dell’alimentazione umana da almeno diecimila anni, i teorici del glutine ribattono facilmente che ciò che noi chiamiamo pane è tutto fuorché pane, che il grano è tutto Ogm. Però qui si pone un altro problema, perché anche ammesso che fosse veramente Ogm, questo non cambia la molecola del glutine. Donald Kasarda, ricercatore del Dipartimento dell’Agricoltura americano, ha studiato genetica dei cereali per decenni, e in uno studio recente ha rilevato che non c’è corrispondenza tra il moderno trattamento dei grani industriali e l’insorgere di celiachia.
Nel suo lungo lavoro di ricerca per salvare i suoi cornetti mattutini invece Stephen Yafa non è arrivato a conclusioni definitive, né in negativo né in positivo, poiché, sostiene, la ricerca sull’alimentazione è molto difficile, tutta basata sulle cose diverse e sull’osservazione di cosa uno mangia e cosa si ricorda di aver mangiato. Comunque, nota che molti tra i sofferenti di mal di collo da glutine vedrebbero scomparire il loro lancinante dolore se il pane è fatto in casa o sottoposto a fermentazione lenta. Insomma, il glutine, se gli lasci una notte per riposare, se non lo stressi, non fa più paura.
Ma qui si esce dall’affascinante mondo glutinato e si entra nei Misteri della Pasta Madre. Quel mondo in grande sviluppo anche in Italia di pizze focacce e supplì fatti con farine “del mulino di”, di pizzerie con appunto “pasta madre” che stanno conoscendo grande successo. La pasta madre è un piccolo impasto gelatinoso-colloso che i seguaci della moda del pane gourmet si tramandano come preziose reliquie. La pasta madre in sé è sterile, per lievitare deve essere associata ad altra sostanza (fecondata?), la pasta madre non si compra, si propala tra pochi iniziati, aggiungendo farina alla sostanza primigenia, e lasciata una notte a riposare, al mattino la pasta risorge in tutto il suo gonfiore. Il miracoloso processo che ha del religioso a partire dal lessico (“madre”, come “Terra madre” di Vandana Shiva, ma anche “grande madre”, madre vergine, e immacolata concezione perché trattasi di riproduzione senza amplesso); la notte ad attendere il miracolo, come una risurrezione. Il mattino, ecco il santo turgore, a lievitazione lenta.
E’ chiaro che di fronte alla transustanzazione della pizza non c’è dietologo che tenga, ci vuole qualcuno del ramo. Così è di un esperto di religioni, Alan Levinovitz, un altro libro che tratta laicamente di cibo e di glutine: “The gluten lie and other myths about what you eat”. Il libro si apre in realtà con la storia della Sindrome (del ristorante) cinese. Nel ‘68, mentre nei campus californiani cominciava la protesta, partiva anche un’altra protesta contro un male che era peggio del Vietnam; era la guerra contro il glutammato di sodio, componente base del dado e aroma estratto dalle alghe che dà quel saporino sempre uguale eppure appetitoso a ogni piatto cinese. Il 4 aprile 1968, scrive Levinovitz, in una lettera al New England Journal of medicine il dottor Robert Ho Man Kwok segnalava che ad ogni pasto al suo cinese preferito aveva sperimentato nausea, mal di testa, addirittura palpitazioni. Fu l’inizio dell’escalation che come nel film di undici anni dopo con Michael Douglas non vedeva scoppiare il nocciolo di una centrale nucleare ma l’isteria anti-glutammato. Migliaia di lettori scrissero al prestigioso giornale testimoniando che sì, anche loro avevano avuto mal di testa e nausea (meno, le palpitazioni) dopo i loro involtini primavera. Il New York Times gli andò dietro, i concorrenti di Nature per non sfigurare decisero che era ora di togliere dal commercio il pericoloso glutammato, il paladino dei diritti dei consumatori Ralph Nader portò avanti la sua battaglia anti dado, e nel 1969 le grandi corporation dei cibi per bambini dovettero togliere l’insaporitore dai loro prodotti per bambini. Solo dopo quarant’anni di lotta al dado – che nel frattempo era stato accusato di provocare cancro al cervello, alzheimer, insomma qualunque micidiale malanno – nel 2013 una ricerca ospedaliera intitolata Food Allergy: Adverse Reactions to Foods and Food Additives stabiliva che “i sintomi causati dal glutammato sono rari anche tra coloro che credono di essere allergici al glutammato”. In pratica, i mal di testa causati al ristorante cinese avrebbero potuto venire anche al ristorante italiano, o francese, o anche a casa o in barca. Erano mal di testa. Magari di involtini primavera te n’eri mangiati troppi.
Glutammato e glutine peraltro non hanno che qualche sillaba in comune; anche se in Rete è pieno di domande terrorizzate (“il glutammato contiene per caso glutine?” se fossero della stessa famiglia sarebbero una specie di molecola-canaglia dell’alimento, ma non c’entrano niente l’uno con l’altro). La parabola del glutammato, però, spiega Levinovitz, è un classico delle crociate alimentari: il percorso è sempre lo stesso; “medici molto ben intenzionati arrivano costantemente a conclusioni affrettate sul cibo; i media sono sempre affamati di storie edificanti di privati cittadini pionieri contro le grandi corporation”. Poi ci sono dietisti, guru, specialisti che costruiscono carriere su falsi miti; “la maggior parte dei miti su glutine, grassi, zuccheri, sale, hanno scarse basi scientifiche e più religiose e mistiche, superstizioni che rimangono invariate per secoli”. Con effetti anche paradossali per cui, come scrive il New Yorker, i cibi gluten free oltre ad essere molto costosi contengono spesso molti più sale e zucchero. Un altro paradosso è che il boom degli alimenti per celiaci è in capo soprattutto a grandi compagnie, non certo al piccolo pizzaiolo locale. I colossi alimentari possono facilmente imporre sul mercato i loro prodotti, come il gruppo dei cereali Kellogg che con successo ha da poco introdotto frosties e fiocchi di riso gluten free. Per i piccoli produttori è molto più difficile lanciarsi in una differenziazione così sofisticata.
Ma è chiaro che “senza glutine”, così come “vegano” o “naturale” o “biologico”, sono solo mantra che accompagnano il povero consumatore-fedele tra gli scaffali del supermercato. Le parole d’ordine sono molteplici e si aggiornano costantemente, in un vortice di ascesi effimera che si vorrebbe fondata su base tecnologico-scientifica. Secondo uno studio riportato dal Guardian, per esempio, il concetto di “detox” e tutto il corollario di diete disintossicanti, non hanno alcuna correlazione con la scienza. “C’è un solo tipo di disintossicazione reale” ha detto al quotidiano il professor Edzard Ernst, della Exeter University, “quella dei tossici”. Il resto è un business di “imprenditori o ciarlatani che tentano di disintossicare il vostro corpo da cosiddette “tossine”. Che sarebbero poi “sostanze velenose che il corpo ingurgiterebbe, ma non si sa esattamente di cosa si tratta”.
Così forse non serve neanche “l’estrattore”, il nuovo cilicio della sanità alimentare, il derivato della spremuta e della centrifuga. Ma se la centrifuga è veloce e aggressiva, l’estrazione di succhi “detox” da è naturalmente “lenta” (la lentezza è un elemento fondamentale della religione alimentare, dallo slow food in poi. Bisognerebbe risuscitare Roland Barthes per apprezzare meglio i significanti della tossina e della vitamina).”Il sistema di spremitura brevettato lento permette di preservare gli elementi nutritivi senza macinare gli ingredienti” dice un cartello da Eataly, tempio della chiesa del lento, pubblicizzando primari estrattori marca Hurom, prezzo da 379 a 589 euro. Però, dice la scienza, bere bibitoni di estratti al finocchio o al carciofo o allo zenzero non purifica: non il corpo, quantomeno. Forse l’anima. E si torna sempre qui: “tanti di questi mantra partono da una base di verità, incluso il movimento anti-glutine. Alcune persone sono celiache, mentre altre pur senza essere celiache possono comunque beneficiare dal non mangiare glutine” ha detto Levinovitz ad Anna Momigliano di “Studio”. “Ciò che è irrazionale è sostenere che se qualcosa nuoce a una piccola parte della popolazione, allora deve fare per forza male a tutti. È qui che entra in gioco l’idea di purezza religiosa”. “E se una sostanza è ‘corrotta’ per alcune persone, allora deve essere impura e corrotta per tutti, deve essere trasformata in un tabù. Che si tratti di mettere al bando il glutine oppure i cosiddetti ‘alimenti raffinati’, spesso esiste anche una dimensione di colpa, perché si tratta anche di cibi altamente calorici: in una cultura patologicamente spaventata dall’ingrassare, consumare cibi e bevande che contengono glutine, come il pane, la pasta o la birra, diventa un atto che richiede penitenza”. Confessatevi, insomma, che poi l’ostia gluten-free è in arrivo.
Fonte: ilfoglio.it