Sempre più persone risultano allergiche o intolleranti a determinati alimenti. Industria e ristorazione si stanno impegnando per proteggere i consumatori, ma non sempre le etichette e le normative in vigore bastano ad offrire a garantire un grado sufficiente di tutela. Ne abbiamo parlato con Susanna Neuhold, responsabile Food dell’Associazione italiana celiachia, per capire da dove provengono i potenziali pericoli per celiaci (e non solo) e come si potrebbe migliorare per ridurre i rischi.
Di recente un europarlamentare della Lega ha chiesto alla Commissione europea di introdurre un’apposita dicitura: “Può contenere glutine”. Come valutate questa proposta?
L’abbiamo apprezzata ed è da tanti anni che ci interessiamo a questa problematica. Si tratta di una lacuna nella normativa dell’Unione europea. Il regolamento in vigore, che risale al 2011, prevedeva che l’introduzione di questa dicitura fosse normata come per l’obbligo di dichiarare gli ingredienti allergenici. Noi l’attendevamo ma non è mai arrivata. Per questo motivo da tempo valutiamo azioni in collaborazione con la nostra Federazione Europea, cioè
l’Associazione delle società europee di celiachia, per elaborare un piano strategico al fine di ottenere l’introduzione di questa dicitura. Dato che questo aspetto non è al momento normato, restano incertezze sulla presenza o meno di glutine non dichiarato.
Cosa comporta questa incertezza?
Il problema deriva dal fatto che il Regolamento Ue 1169/2011 impone che l’allergene, non solo i cereali contenenti glutine ma anche altri, sia dichiarato solo quando viene aggiunto al prodotto, non nel caso di rischio di contaminazione. Questa avvertenza in realtà oggi è ampiamente utilizzata dalle aziende, ma a prescindere da una specifica regolamentazione. Spesso le aziende tendono quindi ad abusarne per tutelarsi, citando a prescindere tutti gli allergeni. In questo modo però il consumatore anziché sentirsi protetto non dà più fiducia all’azienda e tende a consumare lo stesso il prodotto.
Perché lo fa?
Esistono in letteratura diversi studi in proposito. Vedendo sempre citati tutti o molti degli allergeni, il consumatore è consapevole che spesso le aziende ne abusano, e non la ritiene più un’informazione affidabile. È un po’ come il “al lupo, al lupo” di Pierino, alla fine il consumatore non crede più all’alert della azienda, e si sente privato di un reale potere di scelta. Non fidandosi, rimane esposto ai rischi, che sia allergico o semplicemente intollerante.
Tornando alla celiachia, come potrebbe migliorare il vostro rapporto col cibo inserendo in etichetta “può contenere glutine”?
Come celiaci abbiamo già un’apposita norma che ci tutela. Grazie alla dicitura “senza glutine” (apponibile in caso di meno di 20mg di glutine, ndr), possiamo capire quali prodotti sono davvero sicuri, perché chi la appone lo fa a ragion veduta. Introdurre anche un’etichettatura che imponga esplicitamente di dichiarare la semplice possibilità della presenza di glutine ridurrebbe l’esposizione ai rischi e amplierebbe le possibilità di scelta dei consumatori.
Esistono esempi di normative che già prevedono questa dicitura?
Ricordo la normativa russa e quella svizzera. Quest’ultima in particolare, pur ricalcando quella europea, stabilisce che sia necessario citare la presenza di un allergene anche nei casi in cui possa derivare da un semplice sospetto di contaminazione. Ci sono poi altre nazioni europee che non hanno normato, ma hanno emesso delle linee guida, per cui i produttori già si attengono a dei criteri e limiti-soglia validi per l’utilizzo della dicitura “può contenere glutine”. In Australia e Nuova Zelanda è stato adottato un apposito schema, noto come Vital, che aiuta le aziende a capire quando effettivamente applicare questa dicitura, per evitare il suo sovra-utilizzo.
A che punto siamo invece in termini di sicurezza nella ristorazione?
Ci rendiamo conto che è complicato gestire 14 allergeni all’interno di una cucina più che in un’azienda. Sarebbe utile al momento intervenire con regolamenti, linee guida e formazioni specifiche. Ad esempio, abbiamo apprezzato l’iniziativa di alcune regioni che richiedono specifici requisiti tecnici per chi vuole offrire un’offerta strutturata senza glutine.
Quali sono?
Si tratta di Piemonte, Toscana, Umbria, Puglia, Basilicata, Liguria ed Emilia-Romagna. C’è poi la Lombardia che fornisce invece linee guida a chi effettua i controlli, che pure è una buona iniziativa. In ogni caso sarebbe auspicabile una normativa nazionale.
Come valutate in linea generale la tutela offerta ai celiaci?
Oggi l’attenzione per i prodotti confezionati è molto elevata, mentre per il prodotto sfuso restano ancora molti dubbi sulla sicurezza, anche se ci sono casi di grande attenzione in alcuni ristoranti, molto attenti a proteggere i clienti.
Quali sono i vostri consigli per i celiaci che vogliano consumare pasti all’esterno, in un ristorante o in una mensa?
Bisogna innanzitutto fare molte domande e, nel dubbio, non consumare un piatto. Questo purtroppo richiede un investimento emotivo notevole e spesso spiacevole per il consumatore, perché si tratta quasi di una sorta di “indagine” nei confronti del ristoratore. Il problema è che oggi si parla spesso a sproposito di celiachia, dato che persone non appositamente formate pensano di saperne abbastanza. Penso ad esempio a coloro che credono che il farro non contenga glutine. Cosa non vera.
Ci sono luoghi che voi reputate “sicuri”?
L’Associazione ha stilato una lista di 4mila ristoranti accreditati. Per aderirvi i responsabili sono tenuti a seguire programmi e corsi di formazione apposita, nonché controlli periodici. Questo li rende luoghi che offrono specifiche garanzie ai clienti celiaci.