L’intento del nuovo protocollo è arrivare a diagnosticare la malattia in fase sempre più iniziale e a ridurre i «falsi positivi», cioè le diagnosi errate
Più tempestività e sicurezza diagnostica. Sono questi i principali obiettivi del recentissimo “Protocollo diagnosi e follow-up della celiachia e sulla prevenzione delle complicanze”, nato dall’accordo tra Stato e Regioni, ufficializzato nella Gazzetta Ufficiale ad agosto, e pubblicato sul sito del Ministero della Salute. Il documento intende meglio tutelare i celiaci, riconoscendo precocemente i sintomi della malattia e “modulando” l’approccio diagnostico a seconda delle manifestazioni causate dall’intolleranza al glutine e dell’età del paziente.
Un problema in crescita
I casi diagnosticati, nel 2014, hanno superato la quota di 170mila, ma si stima che molti – più di 400mila, tra cui 50mila bambini – restino sommersi perché lievi, scambiati per altre condizioni con sintomi gastrointestinali simili o perché sfuggiti alla diagnosi. Ma non è solo questione di numeri da arrestare: l’intento del protocollo è arrivare a diagnosticare la malattia in fase sempre più iniziale e a ridurre i “falsi positivi”, cioè le diagnosi errate, che in termini di salute significano per il paziente minori sofferenze e disagi inutili o evitabili, minori probabilità di incorrere in cure inappropriate o nei casi più gravi in ospedalizzazioni se la diagnosi è tardiva, costi più contenuti per la spesa pubblica. Su queste promesse, il protocollo ha rivalutato l’approccio diagnostico alla celiachia, con una differente batteria di esami e test che tengano conto anche dell’età del presunto paziente intollerante al glutine.
Le novità
Restano per lo più invariate le modalità di diagnosi per l’adulto, che sarà sottoposto a uno screening iniziale con l’esecuzione dei test sierologici sul sangue, mirati alla ricerca delle molecole che sono espressione della malattia celiaca, seguita da una biopsia intestinale per la conferma diagnostica. Sono invece meno invasive le “soluzioni” per scovare la celiachia nei piccoli, sia in età pediatrica che adolescenziale. Non servirà più l’endoscopia (esame molto invasivo) per il prelievo duodenale, ma basterà solo un test del sangue, anche in presenza di chiari sintomi di malassorbimento associabili all’assunzione di glutine e qualora gli anticorpi anti-tTG IgA (antitrasglutaminasi) e EmA IgA (antiendomisio) risultassero positivi con livelli almeno 10 volte superiori al valore soglia. Ancora, dovrà coesistere un profilo genetico (HLA-DQ2 e/o DQ8), compatibile con la celiachia e una riduzione della sintomatologia dopo l’implementazione di una dieta senza glutine.
Il monitoraggio
Il documento dà anche indicazioni su come proseguire nel controllo della malattia, in seguito della diagnosi (follow-up). Nell’adulto l’esecuzione della densitometria ossea (MOC), utile a valutare la presenza di eventuale osteopenia/osteoporosi, oggi attuata alla diagnosi, verrà rimandata dopo almeno 18 mesi di dieta senza glutine e sarà poi ripetuta solo in casi di effettiva compromissione dell’osso o su indicazione medica. Al momento della diagnosi si continueranno ad eseguire i dosaggi del TSH, gli ormoni tiroidei spesso implicati nella malattia celiaca, e degli anticorpi anti TPO; con valori entrambi nella norma, il controllo dei livelli dovrà ripetuto ogni 3 anni. L’esecuzione del test genetico non dovrà essere fatto di routine. Sono candidabili i piccoli pazienti pediatrici perché da esso si ricaveranno informazioni non più disponibili dalla biopsia intestinale, mentre potranno ricorrervi adulti con dubbio diagnostico o familiari di 1° grado a rischio che andranno anche monitorati nel tempo con un follow-upperiodico.
Fonte: www.corriere.it